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I limiti delle cure intensive: la desistenza terapeutica

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12/06/03 - Corriere della sera (Salute) di Isabella Bordogna

Negli ultimi trent’anni il progresso tecnico-scientifico ha fornito al medico che opera in Terapia intensiva nuove strategie d’intervento sui pazienti in condizioni critiche, come l'abolizione della coscienza mediante sedazioni prolungate o la sostituzione di funzioni vitali come la respirazione e la pompa cardiaca o la possibilità di diagnosticare la morte con criteri neurologici, rendendo così possibile il trapianto di organi.
Queste nuove possibilità pongono il delicato problema di quando sia opportuno porre limiti alle cure intensive.
Il dibattito attorno a questo tema è oggi molto acceso, anche perché gli enormi successi della Terapia intensiva hanno alimentato nell’opinione pubblica una fiducia che spesso va oltre le possibilità concrete d’intervento.

Guido Bertolini, epidemiologo dell’Istituto Mario Negri di Bergamo, responsabile del centro di coordinamento Giviti, sottolinea la differenza sostanziale tra i diversi tipi di pratica: «La desistenza terapeutica, la rinuncia all'accanimento terapeutico e il prodigarsi nelle cure palliative sono atti medici importanti e dovuti al paziente. Il pubblico non dovrebbe essere portato a confondere tali termini con l'eutanasia. Far ricadere, come è accaduto di recente sulla stampa, sotto questo termine tutte le modalità non naturali di morire e confondere l'eutanasia con la desistenza terapeutica o la limitazione di trattamenti nei malati in fase terminale, è inappropriato e genera confusione in un terreno già ricco di implicazioni emotive, morali, etiche, sociali e giuridiche. Per eutanasia si deve intendere esclusivamente la soppressione intenzionale della vita di un paziente. Nulla a che vedere quindi con quello che può avvenire in Terapia intensiva».

C’E’ UN LIMITE
Ma in che cosa consiste la desistenza terapeutica?
Lo chiediamo a Davide Mazzon, coordinatore della Commissione di bioetica della Siaarti (Società italiana di anestesia analgesia rianimazione terapia intensiva), direttore del reparto di Anestesia e rianimazione dell'Ospedale di Belluno e membro del Giviti: «La finalità dei trattamenti effettuati in Terapia intensiva è quella di sostenere temporaneamente le funzioni vitali, soprattutto quella respiratoria e quella cardiocircolatoria, di un organismo gravemente malato. L'obiettivo è guadagnare tempo, mentre si cerca di trattare la malattia di base. Nella pratica può, però, accadere che quest'ultima non sia più curabile e ciò rende la sostituzione delle funzioni vitali progressivamente inefficace, fino a constatare il sicuro insuccesso dei trattamenti in atto. Quando ciò accade, diviene addirittura doveroso desistere da quei trattamenti che hanno come unica conseguenza un penoso e inutile prolungamento dell'agonia del malato giunto alla fase terminale. Porre limiti ai trattamenti intensivi nei pazienti senza alcuna speranza di sopravvivenza è in linea con i più autorevoli documenti in materia, sia del Comitato nazionale di bioetica sia delle Società scientifiche, nonché con il Codice di deontologia medica. In questo senso, è frutto di ignoranza o di superficialità porre sullo stesso piano l'eutanasia e la desistenza terapeutica, che è praticata sia nei reparti di Terapia intensiva sia al di fuori di essi, quando non vi siano prospettive di successo delle terapie fornite al paziente. Questa confusione concettuale e terminologica porta addirittura alcuni medici italiani a considerare impropriamente la desistenza da cure "inappropriate per eccesso", poiché prolungano solo l'agonia, come un atto di eutanasia. Basterebbe invece pensare alla differenza tra l'intento di "lasciar morire" un paziente in fase agonica, senza travolgerlo con trattamenti di nessuna utilità per lui, e quello di agire per "dargli la morte" che è, invece, da intendersi come eutanasia in senso stretto. Non è superfluo ricordare, comunque, che nell'attuare la desistenza terapeutica i medici non abbandonano mai il paziente e si impegnano anzi ad alleviarne le sofferenze con le cure palliative, mirate a controllare il dolore e l'ansia che il paziente accusa negli ultimi momenti di vita».

QUALI CIRCOSTANZE
Ma è possibile stabilire con certezza quando un paziente è terminale?
«Le Terapie intensive - risponde Mazzoni - ricoverano oggi sempre più spesso anziani, che soffrono di patologie croniche riacutizzate di solito non al primo ricovero in queste strutture, che a ogni successiva ammissione risultano sempre più gravi e meno rianimabili. La morte in questi casi non è mai un evento imprevisto, improvviso. E' piuttosto un processo lento, progressivo e prevedibile. Sono, perciò, situazioni facili da identificare, nelle quali, è bene ricordarlo, la medicina intensiva è talvolta in grado di prolungare per un breve periodo, ore o giorni, il processo della morte, senza alcun beneficio per il paziente».

Che cosa avviene a questo proposito negli altri Paesi?
«Sono state pubblicate di recente su riviste scientifiche internazionali - illustra Bertolini - due importanti ricerche, una francese, l’altra americana. Si tratta in entrambi i casi di indagini basate sull'analisi di diverse migliaia di pazienti. Volendo riportare un solo dato, dalla ricerca statunitense è emerso che il 74% dei decessi in Terapia intensiva è stato preceduto da una decisione di desistenza terapeutica, mentre la stessa percentuale in Francia si è attestata sul 53%. Questi numeri ci fanno capire come la modalità del morire in Terapia intensiva non possa essere considerata diversa da quanto avviene nella maggior parte degli altri reparti ospedalieri, in cui, di fronte a un malato terminale affetto da una patologia inguaribile, ci si dovrebbe astenere da ogni forma di accanimento terapeutico. Non comprendere questa analogia porta ad assumere posizioni che possono solo generare confusioni e aumentare le sofferenze. Vorrei comunque ricordare che i progressi scientifici in questo ambito sono stati straordinari e hanno consentito, per quanto riguarda l'Italia, di ridurre la mortalità in Terapia intensiva negli ultimi 8 anni di più del 17 per cento, a parità di gravità dei pazienti. E’ un dato importante, se pensiamo che si tratta di pazienti che avrebbero avuto, altrimenti, ben poche speranze di sopravvivenza».


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