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Ogni anno aiutiamo a morire ventimila malati senza speranza

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Dati choc da 84 centri di rianimazione e terapia intensiva: per 6 decessi su 10 intervento del medico
L'indagine svolta dell'istituto Mario Negri. "Mancano le norme, i medici rischiano grosso"
di OTTAVIA GIUSTETTI

TORINO - Delle trentamila persone che muoiono ogni anno nelle terapie intensive italiane quasi ventimila, il 62 per cento, lo fanno grazie all'aiuto del medico rianimatore. Si tratta di pazienti per i quali non esiste più alcuna possibilità di cura. Uomini e donne che resterebbero in vita solo grazie all'aiuto di un respiratore. I medici la chiamano "desistenza terapeutica": uno stop a terapie inutili, precisano, che non ha nulla a che vedere con l'eutanasia.

Nessun farmaco letale, nessuna iniezione per la dolce morte è necessaria per chiudere per sempre gli occhi a questi malati. È sufficiente lasciarli andare e accompagnarli nel loro ultimo viaggio. E per ognuno di loro ogni giorno c'è un medico che, in accordo con le famiglie, decide che è inutile andare avanti con le terapie e stacca la spina. I dati emergono da una ricerca presentata ieri nel corso del Congresso annuale della Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva.

L'analisi è stata condotta su 84 centri in Italia, e ha rivelato che più della metà delle morti avviene a seguito dall'interruzione delle cure. I risultati finali sono stati ottenuti con delle proiezioni. Nel 48 per cento dei casi le famiglie danno il loro consenso; per gli altri, se non sono presenti i parenti, è il medico a farsi carico interamente della decisione.

Per questo i medici delle rianimazioni d'Italia sorridono di fronte al clamore dei dibattiti sui casi Welby o Eluana Englaro. Casi importanti perché seguiti dall'opinione pubblica ma in qualche modo eccezionali. Mentre loro ogni giorno aiutano a morire i pazienti in stato terminale e senza abituarcisi mai. Vivendo in equilibrio sul filo di un vuoto legislativo e nella totale assenza di un sostegno etico da parte della società.

Lo studio è firmato da un'équipe di medici epidemiologici dell'Istituto Mario Negri di Milano, diretta da Guido Bertolini. "Questo piccolo esercito di clinici lancia un vero e proprio appello alle istituzioni perché sia colmato al più presto il vuoto legislativo nel quale operano ogni giorno - racconta Bertolini - Sono molto allarmati dal fatto che nei disegni di legge presentati fino a oggi in materia non sia stato preso in nessun modo in considerazione il dilemma etico dell'interruzione delle cure per i malati acuti".

Il caso Welby, sottolineano, rappresenta un caso straordinario che non ha nulla a che vedere con l'attività di ogni giorno dei medici negli ospedali. E se al vuoto legislativo si sostituisse una legge che non contempla la possibilità di staccare la spina a chi non ha più alcuna speranza di vita tutti questi medici sarebbero dei fuori legge, per non dire degli omicidi.

"Se il Parlamento approverà una nuova legge senza fare riferimento alla limitazione terapeutica - dice Bertolini - i medici non rischieranno più e lasceranno vivere i pazienti attaccati al respiratore prolungando inutilmente la loro agonia. Oppure, ancor più grave, selezioneranno i malati e lasceranno morire quelli senza speranza, per non iniziare delle cure che poi non possono più interrompere".


(19 ottobre 2007)

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