Question Time con il Sen. Ignazio Marino, Presidente della Commissione Sanità del Senato - Desistenza Terapeutica Italia - Associazione Italiana per le Decisioni di Fine Vita

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Question Time con il Sen. Ignazio Marino, Presidente della Commissione Sanità del Senato

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tratto da Bollettino SIGG (Società Italiana di Gerontologia e Geriatria): Numero 11, Novembre-Dicembre 2007

Bernabei:
Chi è Ignazio Marino? Mi permetto di leggere un appunto per dirvi, per chi non lo conoscesse, qualche cosa in più rispetto a quello che magari si vede in televisione e sui giornali. Ignazio Marino è specializzato in trapianti d’organo, nato a Genova nel 1955, trasferitosi a Roma a 14 anni dove ha studiato medicina all’Università Cattolica, la stessa Università da cui provengo io e ha poi lavorato per alcuni anni al Gemelli. Agli inizi degli anni ’80, per specializzarsi nella chirurgia di trapianti d’organo, ha lasciato l’Italia per studiare in Gran Bretagna a Cambridge e poi negli Stati Uniti a Pittsburg, che come sapete è il cuore pulsante del mondo dei trapianti in quegli anni. Nel 1992 ha partecipato ai primi ed unici due trapianti di fegato da babbuino ad uomo della storia, un anno dopo gli è stato affidato l’incarico di co-direttore del Centro Trapianti del Veterans Affairs Medical Center, l’unico Dipartimento per trapianti di fegato appartenente al governo. Nel ’99 spinto dal desiderio di mettere a frutto in Italia l’esperienza maturata all’estero è rientrato per fondare e dirigere un centro trapianti multiorgano nel sud a Palermo. Dopo aver avviato i programmi di trapianti di fegato e di rene da cadavere e da donatore vivente, nel 2001 ha eseguito il primo trapianto italiano su un paziente sieropositivo. Nel 2003 ha ripreso la via degli Stati Uniti e si è trasferito a Philadelphia per dirigere il Centro Trapianti del Jefferson Medical Center, una delle più antiche università americane. La lontananza geografica non gli ha fatto perdere i contatti con l’Italia a cui è rimasto legato partecipando al dibattito pubblico attraverso riviste di riflessione politica come “Italianieuropei” o “Micromega” e collaborando regolarmente con l’Espresso (su cui attualmente cura una rubrica mensile “Punto critico”) e la Repubblica. Nel 2005 ha pubblicato il suo primo libro “Credere e curare”, un saggio sulla professione medica e sulla crisi di un mestiere che è cambiato e che rischia di perdere il suo senso più profondo: quello della missione e della solidarietà verso gli esseri umani. Sempre nel 2005, ha fondato Imagine Onlus - Improving Medicine and Growing International Networks of Equality, un'associazione no-profit che opera nel campo della solidarietà internazionale con particolare attenzione alle tematiche della sanità. Nel 2006 ha deciso di tornare in Italia, candidandosi alle elezioni politiche. E’ stato eletto senatore nell'aprile del 2006 come indipendente con i Democratici di Sinistra e, attualmente, ricopre l'incarico di Presidente della Commissione Igiene e Sanità del Senato. La prima domanda è: “Ma chi te lo ha fatto fare?”

Marino:
Sicuramente è stato difficile decidere. E’ stato difficile per tanti motivi, anche perché come immagino tutti potete capire, dopo diciotto anni -perché questo è il tempo complessivo di vita che ho passato negli Stati Uniti- uno un po’ si americanizza, si abitua a un modo di vivere anche all’interno di un’Università. Ho sempre lavorato solo in ambiente accademico e questo è il mio primo lavoro in ambiente non accademico: è la prima volta che il mio superiore non è un preside. Ci abbiamo pensato molto, io e la mia famiglia, ho una moglie e una figlia di quindici anni, poi alla fine devo dire che la persona che più mi ha convinto a fare questo passo è stato Giuliano Amato, una persona che stimo molto. Certamente non è stato lui il primo a propormelo però è stata sicuramente la persona che ha avuto le parole più decisive dicendo che se tutti quelli che hanno accumulato, non dico delle esperienze superiori, ma delle esperienze diverse, nel momento in cui si chiede loro di confrontare queste esperienze per cercare di cambiare il nostro sistema nel campo della salute, della ricerca, della formazione universitaria e non lo fanno, allora poi non ci si può lamentare. Io credo, con un senso di umiltà, ma anche di consapevolezza, di aver vissuto in sistemi diversi e penso che un servizio sanitario come il nostro possa essere modernizzato in molti aspetti e possano essere cambiati proprio alcuni aspetti che lo rendono sicuramente uno dei migliori servizi sanitari del mondo -questo è un dato abbastanza noto- ma ne fanno anche un servizio sanitario che ha un bisogno disperato di una modernizzazione.

Bernabei:
Dopo questo inizio procederemo così. Ho chiesto ai membri del Consiglio Direttivo di fare delle domande che veicolo io a Ignazio perché credo così di rendere le cose un pochino più veloci. La prima parte è dedicata ai grandi temi e comincio subito con il problema della “fine della vita”. Il prendersi cura dell’anziano fino alla fine, accompagnandolo nella fase terminale richiede tutta una serie di competenze dall’uso dei farmaci, alla comunicazione, alla gestione di una assistenza umanizzata. C’è un problema di formazione. Come affrontare la formazione, quali sono i nodi, i punti, i suggerimenti che ci puoi dare?

Marino:
Non ho suggerimenti, ma il modo con cui ho impostato il mio lavoro, in questo anno e mezzo, è quello di ascoltare chi questo lavoro lo fa sul campo e ovviamente chi lo fa in Italia, lo fa con dei parametri sicuramente diversi da quelli di ogni altro paese. Io credo che i punti di riferimento debbano essere due, uno quello di ascoltare le persone -i medici e gli infermieri- e comprendere esattamente quali possono essere le idee che vengono da chi effettivamente è un operatore sul campo nel nostro paese. Queste non sono solo parole, molti medici hanno partecipato durante il 2007 a una serie di riunioni che io ho voluto al Senato della Repubblica perché dovevamo, come probabilmente ricorderete, trovare un modo per avere una legge sulla libera professione dei medici che lavorano all’interno delle strutture pubbliche. All’inizio, quando mi sono trovato questa patata bollente nell’agenda dei lavori, mi sono reso conto che c’era una conflittualità enorme, una conflittualità legata anche alle soluzioni che venivano proposte e ai vari punti di vista. Ho pensato che il modo migliore era ascoltare i medici, ascoltare chi lavorava all’interno dell’ospedale e nello stesso tempo raccogliere dei dati. Abbiamo fatto un’indagine conoscitiva che credo sia la più completa che sia mai stata fatta nel nostro paese sulla libera professione dei medici che dipendono da una struttura pubblica e alla fine, attraverso quel percorso, siamo riusciti nonostante una situazione a voi ben nota, di un Senato della Repubblica dove c’è una divisione estrema tra le parti e dove c’è una differenza, se escludiamo i senatori a vita, di due o tre voti a seconda delle circostanze, ad approvare una legge all’unanimità. Trasferita alla Camera, in soli sei-sette giorni, e questo è un record per il nostro paese, è stata approvata e pubblicata il 6 agosto del 2007 nella Gazzetta Ufficiale. Io credo che questo obiettivo è stato centrato soprattutto perché si sono coinvolte direttamente le società scientifiche, i medici, i sindacati, in maniera costruttiva. Ho chiesto ad ognuno “dite, proponete quali vi sembrano le soluzioni migliori, quali vi sembrano i percorsi migliori” e credo che questa sia la strada da seguire anche per la formazione. Prima uno dei miei maestri, maestro anche di Roberto, il Prof. Carbonin mi ha detto, mentre ascoltavamo la lettura magistrale del prof. Masotti, una frase molto semplice “forse bisognerebbe fare dei reparti ospedalieri per gli anziani un po’ come nel passato li abbiamo fatti per la pediatria, con le stanze per i familiari”. Credo che nella sua semplicità non sia un’idea così sbagliata. Io appartengo a una generazione, forse mi metterete a ridere, dove il reparto di pediatria del Policlinico Gemelli –non so neanche se Roberto conosce questa vicenda- è stato realizzato in un’area dove si immaginava di mettere i malati di mente, ma siccome c’era stata la legge Basaglia da pochi anni, stiamo parlando della fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ‘80, quel reparto, che era stato costruito proprio per la tipologia delle persone che doveva ospitare, senza spigoli, infatti se lo andate a vedere le pareti finiscono sempre in maniera arrotondata, fu il primo reparto che io vidi nella mia vita con le stanze per le mamme e per i familiari. Roberto è stato così gentile da ricordare un libro, che ho pubblicato per Einaudi nel 2005, dove appunto sostengo, così come lo ha sostenuto con molta chiarezza il prof. Masotti, che effettivamente uno degli aspetti principali che noi dobbiamo recuperare, è di capire che la tecnologia di cui disponiamo oggi, non deve essere un fine, ma deve essere uno strumento per quello che rimane il ruolo e l’aspetto principale del rapporto medico-paziente. E’ su questo aspetto che forse dobbiamo reinvestire, cioè la costruzione di un rapporto umano, di un rapporto profondo e sono inoltre, devo dire, un grande sostenitore dell’idea che dobbiamo anche cambiare alcune delle cose come l’aspetto che è stato brevemente ricordato delle terapie intensive, delle rianimazioni aperte che sono importanti in tutte le fasce d’età, ma in alcune lo sono ancora di più. La presenza di una persona cara, di una voce familiare, sicuramente, almeno io ne sono assolutamente convinto, è importantissima. Quando penso a questi aspetti mi ricordo sempre un episodio che per qualche motivo mi è rimasto nella mente più di altri. Alcuni anni fa trapiantai un paziente di fegato di 72 anni, che è un’età abbastanza avanzata per un trapianto di fegato, aveva una famiglia, come capita spesso negli Stati Uniti, che viveva molto lontana, viveva alcune centinaia di chilometri dalla nostra struttura, il Jefferson Medical College. Un giorno mi trovai alle spalle di una mia giovane collaboratrice, peraltro molto preparata, brava, sicuramente tecnicamente capace che entrò dentro questa stanza, guardò tutti i parametri, fece tutto quello che un bravo medico, preparato deve fare, ma non parlò, non disse una parola a questo signore -si chiama Edward- e uscì. Io mi fermai e rimasi molto colpito, ho ricordato questo episodio proprio adesso quando Roberto mi ha chiesto della formazione. Rimasi molto colpito della risposta che questo giovane chirurgo mi diede. Le chiesi “Perché non gli hai parlato” e lei mi rispose “Io sono stata formata per fare bene il mio lavoro dal punto di vista tecnico non per socializzare con i pazienti”. Questo mi colpì moltissimo perché effettivamente è forse un errore che dipende appunto da chi forma le nuove generazioni dei medici.

Bernabei:
Non c’è dubbio. Una risposta terrificante.
Rimaniamo su questi temi: il discorso delle direttive anticipate. Con chi farle? Chi è il responsabile?
Chi è il medico, è il medico di famiglia?

Marino:
Questo è ovviamente un discorso molto ampio. Come alcuni di voi sanno il Ministro della Salute, due settimane fa, ha presentato in Consiglio dei Ministri un disegno di legge sull’ammodernamento in Sanità dove chiede, e questo ovviamente dipenderà dal parlamento, una delega per riorganizzare tutto il lavoro e tutta l’attività dei medici di famiglia sul territorio. Penso che non possiamo neanche immaginare, con i limiti che hanno e che ci sono stati illustrati pochi minuti fa, degli ospedali supertecnologici se poi non abbiamo una rete territoriale dove questi pazienti, di qualunque età, vengono assistiti. Per quanto riguarda le dichiarazioni anticipate di vita io credo che il medico di famiglia dovrebbe essere un punto di riferimento, certamente lo dovrebbe essere soprattutto se riusciamo a restituire al medico di famiglia quel ruolo importantissimo di persona che con familiarità, con confidenza, con affetto segue le persone nelle varie fasi della loro vita. Credo comunque che una figura debba esistere perché se è difficile per me scrivere delle dichiarazioni anticipate di vita, immaginando quello che posso o che vorrei avere come livelli di terapia, è chiaro che questo è molto più difficile per qualunque cittadino che non abbia una formazione di carattere medico. Penso però che offrire ai cittadini la possibilità di dare delle indicazioni sulle terapie che vogliono o che non vogliono alla fine della vita e soprattutto la possibilità di nominare, quello che io nella legge ho indicato come un fiduciaro, ma il nome si può anche cambiare se non piace, insomma qualcuno che discuta con i medici, nel momento in cui noi non siamo più nelle condizioni di farlo, e discuta su che cosa è più opportuno fare se ad esempio è opportuno proseguire con delle terapie o no. Questo è un principio in cui io credo tantissimo. C’è uno studio condotto dall’Istituto Mario Negri, quindi uno degli istituti più importanti del nostro paese, su 310 rianimazioni italiane -sono 400 e quindi uno studio molto significativo- che dimostra che nelle ultime 72 ore di vita nel 62% dei casi è in genere il medico responsabile in quelle ore del reparto che decide di procedere verso quella che loro chiamano una desistenza terapeutica. Ora assolutamente ritengo che sia probabilmente quasi sempre, se non sempre, fatto in scienza e coscienza, ma se devo essere sincero se fossi io nella situazione di quel paziente preferirei che si tenesse anche conto di quelle che sono le mie indicazioni o le indicazioni di una persona di cui mi fido, di una persona che amo, di una persona che mi ama. Tutto sommato credo che quella sia la decisione più importante che uno può prendere nella propria vita e se non la può prendere da solo penso che sia molto meglio farla prendere ai medici, che evidentemente hanno la competenza, ma insieme a qualcuno che ci conosce, che sa se amiamo il mare o la montagna, se ci piace la musica o ci piace fare una passeggiata, insomma qualcuno che sappia quello che per noi è vita, che ci conosca nel nostro intimo. Molto meglio che affidarlo a qualcuno che magari ci ha ricoverato già intubati e in una condizione in cui non ha nessuna possibilità di interazione umana. Penso che questo sia un percorso di civiltà e credo che dobbiamo farlo anche nel nostro paese.

Bernabei:
L’alimentazione artificiale, una storia annosissima, ma di cui ti chiedo di fare il punto: terapia medica e quindi sospendibile o assistenza di base e quindi no?

Marino:
E’ evidente che io essendo un medico, essendo un chirurgo ho una convinzione, come si direbbe negli Stati Uniti, sono fortemente “opinionated” su questo tema….

Bernabei:
...ti interrompo solo un attimo per dire che per noi c’è il problema delle famiglie del demente terminale con la peg, classico. Ecco partì da lì.

Marino:
Devo dire che in Commissione Sanità, dove come sapete questo tema si sta affrontando da circa un anno, abbiamo un gastroenterologo che ha passato molti dei suoi anni a posizionare peg, soprattutto nei pazienti anziani nella città dove era primario, e con molta forza spiega, quando interviene in discussione, come lo ritenga un errore. Cioè il fatto che si debba, attraverso uno strumento tecnologico e attraverso una nutrizione che è assolutamente artificiale, prolungare una vita senza avere nessuna possibilità, dal punto di vista pratico, proprio per le pressioni che spesso ci sono da parte dei familiari, di sospendere una terapia oppure di non iniziarla. E’ chiaro che oggi il posizionamento di una peg non si fa più nel modo in cui si eseguiva venti anni fa, oggi è una manovra endoscopica assolutamente semplice, però è effettivamente una manovra chirurgica, tanto ché se io in questo momento ne avessi bisogno, per qualunque motivo, e sono cosciente, se non firmo un consenso informato nessuno me la può mettere. Ecco allora è chiaro che il discorso secondo me si sposta sulla necessità di poter avere delle indicazioni da quel paziente in un momento in cui può concentrarsi su quello che potrebbe significare avere una peg e non avere nessuna concreta possibilità di recupero dell’integrità intellettiva. Credo però, e questo lo voglio dire con molta chiarezza, almeno stiamo cercando di muoverci in questa direzione, che non si vuole fare una legge che sia sospensiva soltanto di alcuni strumenti, se qualcuno intende non indicare nulla o se qualcuno intende invece indicare che, anche in una situazione terminale, vuole utilizzare le risorse che la scienza e la tecnica mettono a disposizione, credo che in un paese come il nostro questo debba esser consentito. Per paese come il nostro intendo dove la sanità è fortunatamente basata sul criterio di equità, di accesso e di solidarietà. Però credo che dobbiamo anche tener presente l’art. 32 della costituzione che dice con chiarezza che non si può sottoporre a una terapia qualcuno che non voglia essere sottoposto a quella terapia. Penso che la nutrizione diventerà in Parlamento il nodo finale del disegno di legge, immagino che su questo punto una parte del Parlamento sarà contraria e credo che sarà contraria soprattutto se la legge dirà che si possono sospendere anche nutrizioni enterali che sono già in atto. Probabilmente la maggior parte invece dei membri del Parlamento sarà d’accordo sull’ipotesi che se qualcuno indica che non vuole il posizionamento di una peg o comunque non vuole intraprendere una nutrizione artificiale ha il diritto di poterlo indicare.

Bernabei:
In “Credere e curare” tu fai una lunga riflessione sul problema dell’umanizzazione a fronte della tecnologia che ormai è così imperante. Noi abbiamo poi il problema ulteriore che dobbiamo affrontare i malati vecchi con patologie croniche, quindi il disastro di dover conciliare umanità e DRG. Che strade intravedi?
Marino:
Ho una fortissima convinzione, riportata anche in questo testo molto complesso che ha un indice lunghissimo del disegno di legge al quale facevo riferimento prima, ed è quella che nei DRG vada in qualche modo indicato anche il tempo che si dedica a un paziente. Non è possibile che una procedura che viene fatta in 5 minuti o una visita che viene fatta in 10 minuti venga valutata, dal punto di vista economico, come una visita o una discussione con un paziente che dura 45 o 60 minuti. Credo che il meccanismo, secondo me, premiante rispetto al tempo, all’umanizzazione che si ha nel rapporto con il paziente deve essere introdotto nella nostra medicina perché altrimenti si continua ad andare su quella deriva che io descrivo anche nel libro e della quale sono perfettamente convinto. Quello che è accaduto secondo me è che noi tutti a un certo punto ci siamo un po’ distratti, concentrati più nelle nostre attività che possono essere attività cliniche d’eccellenza, attività d’insegnamento, attività di ricerca e abbiamo lasciato che l’organizzazione dell’ospedale moderno fosse affidata, ma non è solo un problema italiano è un problema di tutti i paesi, a specialisti di organizzazione aziendale. E’ chiaro che con quel tipo di criterio è sfuggito un po’ di mano l’importanza del rapporto umano tra medico e paziente e quindi anche la valorizzazione del tempo tra medico e paziente. Credo che questo debba essere assolutamente riaffrontato come sono fortemente convinto che anche nella revisione contrattuale con i medici del servizio sanitario pubblico debba essere introdotto un meccanismo che premia i migliori, la qualità dei risultati e diciamo gli outcomes devono essere valutati e deve esserci anche un meccanismo premiante sia in termini di carriera che in termini economici nei confronti di coloro che ottengono dei risultati migliori. Questo credo sia l’unico modo per modernizzare il nostro Servizio Sanitario dal punto di vista dei professionisti e anche di utilizzare dei meccanismi che portano le persone ad essere incentivate e ad essere premiate quando fanno qualcosa di migliore rispetto ad altri.

Bernabei:
Come ti sei trovato tornando da un paese come gli Stati Uniti dove il livello di organizzazione e di metodologia proprio nell’affrontare le cose che è certamente maggiore di quello che c’è in Italia? A me colpisce sempre il fatto che a Roma, nelle quattro Scuole di Medicina, ci siano oltre 30 pediatri e solo 7 geriatri, ma non per un discorso di corporativismo, semplicemente per segnalare i ritardi, il non affrontare i problemi è trasversale. La mula che citava Masotti a me faceva venire in mente “ma perché la Fiat non fa una macchina facile, dove si entra facilmente senza dire che è per i vecchi” probabilmente dopo la venderebbe anche di più oppure “perché l’Italia non è diventata una specie di laboratorio naturale dove sviluppare le tecnologie per la vecchiezza e quindi magari esportare queste?” Che ragione te ne sei fatta?

Marino:
Sicuramente gli Stati Uniti sono un paese molto organizzato però quando si parla di geriatria, della fase più avanzata della vita, devo dire che l’Italia è un paese migliore. Io davvero non pensavo di ritornare in Italia adesso però ho sempre affermato che non avrei voluto rimanere da 70enne negli Stati Uniti, perché effettivamente nel momento in cui esci dal ciclo produttivo sei assolutamente fuori. Ricordo, anche se questo c’entra poco con la domanda ma serve a dare un’idea, le tante figure importantissime del mondo universitario, del mondo accademico americano che, nel momento in cui lasciavano, neanche i giovani li salutavano più e venivano relegati nella stanza più piccola dell’istituto, se gliela davano. Questo mi ha ferito sempre molto perchè penso che invece sedersi con un docente anziano ed ascoltare come alcuni percorsi sono stati fatti è sempre un’esperienza gratificante per tutti. Credo che il problema dell’organizzazione e di una, fino adesso, opportunità perduta del nostro paese sia legato al fatto che purtroppo si investe poco in innovazione e ricerca. Se si investisse di più probabilmente dovrebbe essere un ottimo laboratorio per, come dici tu, un automobile, penso anche a un cellulare più adatto a un anziano o anche semplicemente ad un sistema televisivo più facile e non con tutti quei comandi complicatissimi che già io devo chiamare mia figlia di quindici anni per cercare quello che mi occorre. Battute a parte, credo che il problema sia dell’investimento. Prima il prof. Masotti ha fatto vedere le percentuali sul Pil della spesa sanitaria, ma sono ancora più demoralizzanti le percentuali sul Pil degli investimenti in ricerca e innovazione. Noi siamo intorno all’1.1% del Pil quando l’obiettivo europeo dovrebbe essere 2,5 e ci sono paesi che hanno superato il 4% del Pil in investimenti per ricerca e innovazione. Uno di questi è il paese da dove viene prodotto il telefonino che la maggior parte degli italiani hanno in tasca. Se ci chiediamo il perché viene da quel paese che è anche più piccolo del nostro, la risposta è perché proprio in quel paese si sono investiti molti più soldi in ricerca e innovazione. Questo poi evidentemente si riflette su tutti gli aspetti della nostra vita, anche sulla vita degli anziani.

Bernabei:
Ieri sera è successo questo fatto -l’avrai letto sui giornali- del signore di Prato, che dalle cronache che ho letto, abbastanza verosimili, sembrerebbe che fosse stato sinceramente attaccato alla moglie, malata di Alzheimer, che andava a trovare varie volte al giorno. Nonostante questo ha tirato tre colpi di pistola alla donna risolvendo così il problema. E’ evidente che è un sintomo che fa capire che forse la misura è colma. Il problema è quello di riconvertire probabilmente le risorse e trasferirle a livello del territorio. Io in tutti questi anni, ormai sono una ventina che mi occupo di queste cose, ho trovato sempre una straordinaria resistenza da parte dei medici di medicina generale, che sono poi potentissimi, adesso io non voglio dire che la “pistolettata” è colpa dei medici di medicina generale, anche perché poi mi gambizzano, ma certamente è credo uno dei nodi più difficili da sciogliere. Cioè il malato, il demente, il fragile, quello che noi in gergo, per capirci, definiamo il “catorcio”, era quello che suor Bartolomea –tu te la ricorderai- diceva irata ”..stanotte ci hanno ricoverato un catorcio…”, ecco il catorcio deve avere un gestore che non può essere il medico di medicina generale se no si va a finire a pistolettate. Come lo si risolve? In tutte le varie sedi, Consiglio Superiore di Sanità, Fondazione Italiani Europei, cerchiamo di scriverle queste cose però poi la resistenza della macchina è terrificante.

Marino:
Ho incontrato diverse volte in questo anno e mezzo chi rappresenta i medici di medicina generale e sicuramente una certa resistenza a cambiare lo schema e le modalità con cui lavorano c’è, su questo non credo che aprirei un dibattito perché sarebbe un dibattito sterile. E’ evidente che insomma vivono in questo momento una condizione di relativo privilegio perchè hanno una retribuzione che spesso è superiore a quella di un primario di una Unità Complessa, non hanno la necessità di fare guardie, non hanno reperibilità festiva, insomma è chiaro che qualcosa deve essere necessariamente cambiata. Però io credo che il cambiamento debba passare anche attraverso la creazione di figure diverse come una specie di manager sul territorio, lo possiamo chiamare care-manager, case-manager, oppure trovare una parola italiana più bella, ma di fatto nel momento in cui il paziente più fragile lascia il luogo di cura, dove l’intensità delle terapie è maggiore, ci deve essere qualcuno che coordina tutto questo tipo attività. Poi tra l’altro questo, che negli Stati Uniti è stato fatto negli ultimi quindici/diciotto anni, effettivamente non solo significa umanizzare la medicina, perché il paziente anziano ovviamente preferisce stare nel luogo che gli è più familiare, ma poi alla fine costa anche di meno, infatti gli Stati Uniti non è che lo hanno fatto perché hanno un’impronta solidaristica nel gestire o nell’erogare la sanità, lo hanno fatto perchè si risparmia. Cioè avere qualcuno che va due o tre volte al giorno, prende i parametri vitali di una persona, controlla che stia assumendo le medicine che deve prendere, controlla se ha necessità di medicazione oppure somministra un farmaco endovena o per via intramuscolare, rende migliore la vita di quella persona e minore il costo rispetto alla terapia fatta in ospedale dove poi appunto viene identificato con il termine di suor Bartolomea. Insomma è sicuramente la strada che bisogna seguire. E’ evidente che bisogna cambiare un po’ la job description dei medici di medicina generale, ma è inevitabile che in un paese demograficamente come il nostro si vada in questa direzione.

Bernabei:
Mi permetto solo un piccolo consiglio. Se puoi, cerca di mettere il case-manager nel distretto, non alle dipendenze delle UMG perché se no non si arriva allo scopo. Il catorcio è veramente un malato specialistico che ha bisogno di una gestione da parte di persone che siano professionisti come il casemanager della valutazione ecc.
Un’altra cosa, l’impressione che abbiamo regolarmente è che non si comanda più e che in fondo forse il tentativo –non so quanto riuscirà, e questa è più una domanda politica- di Berlusconi e di Veltroni è quello di trovare un sistema che permetta di comandare. Secondo te c’è questo dietro e ci si arriverà?

Marino:
Certamente è una domanda complessa io posso rispondere sulla base della mia personale esperienza, chiamiamola esperienza politica, in questo anno e mezzo. Devo dire che mi sono reso conto, lo dico ricordando una battuta che mi è stata fatta all’inizio del mio mandato come Presidente della Commisione Sanità, una senatrice di Forza Italia, tra l’altro una persona molto intelligente e preparata in materia di Sanità, mi ha apostrofato mentre cercavo di coordinare i lavori per andare in una certa direzione dicendo “…Presidente lei non è più nella sua sala operatoria…” e ovviamente intendeva dire che non potevo comandare… Mi sono reso conto che effettivamente però ci può essere un modo diverso di costruire il consenso e di arrivare comunque a delle soluzioni: quello di ascoltare l’opinione di tutti e confrontarla con i dati. Le persone si rendono conto, anche al di là delle ideologie, che se ci sono delle situazioni che devono essere risolte e ci sono i dati è chiaro che diventa più difficile cercare di far melina o cercare di rallentare un processo verso la modernizzazione di un sistema. In effetti, con maggiore fatica, perché sicuramente è più facile dare delle indicazioni se uno ci crede fortemente poi seguirle, ma in Sanità siamo riusciti in un anno e mezzo a fare diverse cose a portarle a compimento attraverso un percorso di questo tipo. Credo che quello che vuole fare Veltroni –non ho informazioni dirette su cosa voglia fare Berlusconi– è proprio questo cioè non l’idea che se io dico bianco e tu dici nero è quella di alzarsi con una mazza da baseball e cercare di distruggere l’interlocutore vedendolo come avversario perché se continueremo in questo modo sicuramente non faremo molti passi avanti. Io sono sempre stato un elettore –sono anche cittadino americano- democratico, non ho partecipato all’elezione di Bush però credo che pochi nel pianeta abbiamo approfondito il fatto che la maggioranza nel Congresso, in questo momento, è cambiata. Perché un paese maturo riesce ad individuare dei temi importanti e portarli avanti anche indipendentemente dalle maggioranze perché altrimenti se l’idea deve essere quella di far cadere l’avversario e non quella di far progredire il paese sicuramente non è un’idea vincente.

Bernabei:
Andiamo verso la fine. Ho ancora due cose sulle quali credo valga la pena di riflettere un po’. Una è il problema degli embrionali. La cosa ci coinvolge perché la gente viene da noi pensando che con le staminali embrionali il problema del Parkinson e dell’Alzheimer venga risolto. Per quello che noi vediamo in letteratura certamente Parkinson e Alzheimer oggi sono molto lontani dall’essere curati dalle staminali embrionali. La speranza di queste ultimissime scoperte delle staminali adulte che riescono a ritornare embrionali ti pare che potrà placare il livello di polemica? La seconda cosa è il problema della palliazione. La palliazione da noi, quel poco che c’è, è tutta oncologica e invece ormai c’è un problema di cronicità diverse, quella respiratoria, quella cardiaca, e proprio in questa direzione bisognerebbe cercare di lavorare un po’. Vorrei sapere se riesci a pensare qualche strada nuova.

Marino:
Per quanto riguarda la ricerca sulle cellule staminali io personalmente ho delle idee, ma anche delle convinzioni che vanno al di là delle mie idee, ho sempre pensato, e non per motivi ideologici, anche se non ho mai fatto un segreto di essere un credente, che le staminali probabilmente, se serviranno per curare delle malattie, potranno essere utilizzate a partire da strutture che non siano le strutture embrionali. Effettivamente rispetto al dibattito di tre-quattro anni fa oggi mi sembra che con la reingenerizzazione di alcuni geni delle cellule adulte è possibile ottenere delle staminali quanto meno multipotenti se non totipotenti. Ritengo però, e questo lo dico con molta onestà, che noi nel nostro paese, come in molti altri paesi, abbiamo commesso un errore abbastanza frequente che è quello di procedere su alcuni percorsi prima che questi siano regolamentati, non dico dai parlamenti, ma almeno dalle società scientifiche. Così ci siamo ritrovati con un numero variabile di embrioni che sono stati congelati, era un numero non ben chiaro fino a qualche anno fa, adesso almeno nel nostro paese si pensa che siano intorno ai tremila. Penso che sinceramente anche in questo settore così complesso il modo migliore di affrontare i problemi è di sedersi intorno ad un tavolo e pensare se dal punto di vista etico è preferibile lasciarli morire nel freddo oppure eventualmente immaginare che possano essere donati per la ricerca così come nel 1969 a Harward un comitato stabilì i criteri di morte cerebrale. Criteri che sono davvero di natura convenzionale e che hanno cambiato la storia della medicina e sicuramente la storia della mia branca perché, pochi forse sapranno, che Christian Barnard, che per primo ha eseguito un trapianto di cuore, benché fosse andato negli Stati Uniti ad imparare la tecnica non poteva eseguirlo perchè negli Stati Uniti non si poteva prelevare un cuore da una persona, anche se la si immaginava in morte cerebrale, se il cuore batteva. Fino al 1968 la morte era identificata con la morte cardiaca. Quindi è stato proprio un ragionamento intorno ad un tavolo fatto non solo da medici, ma anche da uomini di religione, filosofi, pensatori di altra natura che ha portato alla possibilità di utilizzare gli organi di un cosiddetto cadavere a cuore battente. Ora io non so se quel percorso può essere utilizzato anche per gli embrioni che sono stati abbandonati oppure se questo non è un percorso che verrà condiviso dai più. Credo che come in tutte le cose il fatto di sedersi intorno a un tavolo e sedersi con lo spirito che nessuno di coloro che si siede è il portatore o il depositario della verità penso che sia il percorso che dovremmo seguire. Evidentemente, qui purtroppo, vale ancora la regola della mazza da baseball, se tu dici una cosa e io cerco di spaccarti la testa questo non è il modo migliore secondo me di procedere.
Cure palliative. Non so quanti di voi sanno quanti sono gli hospice attivi in Italia, sono 120: 103 da Roma in su e 17 da Roma in giù. Da Roma in su ci sono 28 milioni di abitanti e 22 milioni invece al sud. E’ chiaro che come per i professori di pediatria e di geriatria qualcuno ha sbagliato i conti. E’ evidente che c’è una distribuzione delle risorse che non va bene. La stessa cosa vale per le cure palliative. Immagino che nel nostro ufficio di Presidenza di martedì una delle proposte sarà quella di mettere all’ordine del giorno dei nostri lavori una legge sulle cure palliative che evidentemente non può lasciar fuori la popolazione geriatrica. Anzi credo che se questo verrà fatto e se come immagino verrà messo all’ordine del giorno credo che sarà necessario poi confrontarsi anche con la vostra società per poter inserire in una legislazione che distribuisca anche risorse sul territorio nazionale per la popolazione geriatrica.

Bernabei:
Ignazio ha un’onestà intellettuale che veramente ce ne fossero in giro e a questo punto sono arciconvinto che tu hai lasciato perdere una straordinaria carriera, anche poi dai risvolti affascinanti, da chirurgo perché ancora vale quello che diceva Virchow “la medicina è una scienza sociale e la politica altro non è che la medicina su larga scala”, tu sei passato da una scala alla larga scala perché hai in testa che vuoi lasciare il mondo migliore di come l’hai trovato. Ti ringraziamo e arrivederci.

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